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domenica 13 novembre 2016

Tour in Coppola: VII - Etna: la Montagna dona, la Montagna toglie

Tour in Coppola: VII - Etna: la Montagna dona, la Montagna toglie

Il lungo cammino di Tour in Coppola continua. E non può escludere Lei. La "Montagna". La più alta cima di Sicilia è lì che svetta da sempre, a meravigliare, a riempire, a modificare le esistenze di chi vive ai suoi bordi, dimenticandosi talora che in realtà parliamo di uno stratovulcano.


L'Etna.
La madre creatrice, il padre distruttore.
Un piccolo universo a sé stante o, se vogliamo, l'origine stessa dell'universo. La nascita del suolo, la sorgente di vita. Il punto di non ritorno.
Si racconta che il filosofo Empedocle, alla ricerca degli elementi, i semi li chiamava, salì in cima al vulcano per capirne la formazione e accidentalmente cadde nella sua immensa bocca trovando la sua fine. L'Etna avrebbe poi rigettato uno dei suoi bronzei sandali, a eterno monito contro i maldestri escursionisti improvvisati.
Ma i filosofi del passato morivano facilmente di morte immaginaria, epica o insulsa, come i tragediografi: basti ricordare la fine di Eschilo, la cui calvizie fu scambiata per un sasso da un rapace, che vi lasciò cadere una testuggine per romperne il guscio.
L'Etna poi sembra attirare a sé personaggi tra i più stravaganti, i quali cercano di solito chimere, leggende inesistenti, perdendosi tra le glabre rocce che qui prendono il nome di sciara. Come quel fantasioso e crudele vescovo - per alcuni Gualtiero di Palearia - il quale smarrì il suo cavallo. Minacciandolo di morte in caso di fallimento, inviò il suo stalliere alla sua ricerca; questi trovò una grotta, al cui interno anticipato da meravigliosi giardini di pietra si ergeva un magnifico castello dove troneggiava nientemeno che l'anima di Arturo, il re per eccellenza, il quale lo mandò indietro a dire che il cavallo lo aveva in custodia lui, ma se il vescovo lo voleva riottenere doveva salire da sé a cercarlo, ma non un capello avrebbe dovuto torcere allo stalliere; il vescovo punì severamente il suo servo quando rientrò, andando poi alla ricerca dell'animale smarrito. Non trovò mai la grotta, ma nemmeno la strada di casa, morendo da solo in mezzo alle desertiche sciare.

La Montagna.
Per gli abitanti del posto è la fertile cima ricca e rigogliosa, il quale suolo è talmente ricco, diceva Strabone, che le vacche mangiandone i prodotti si ingrassano talmente tanto che gli uomini sono costretti a salassarle per evitare che esse scoppino.
La sagoma indimenticabile e riconoscibile è il punto di riferimento per eccellenza, in quest'Isola-Pianeta senza meta, e il siciliano che ritorna dopo un viaggio - per esso stare anche solo un giorno lontano è l'eterno - si sente a casa solo quando ne vede la cima, tanto alta da soverchiare le nuvole stesse.
Ed è come se qui tutte le cose acquistassero un sapore nuovo, diverso, intenso. La ricchezza del suolo, l'abbondanza di argille nel sottosuolo - che consente a valle la presenza di rigogliose sorgenti - e quel clima che uccide gli uomini e le piante, ma nella sofferenza le rende uniche e dall'intenso sapore. E profumo.

Come il profumo delle zagare, il cui frutto - esso sia l'arancio, il limone, il mandarino - diventa un imperfetto capolavoro del gusto: dalla forma irregolare fuori, ma il cui sapore non ha eguali al mondo. E proprio le arance acquisiscono eccellenti proprietà organolettiche diventando rosse, talora intense come nelle qualità Moro e Sanguinella, a causa delle forti escursioni termiche giù, nella valle a sud-ovest tra Paternò ed Adrano. O le nocciole a est, tra Zafferana e Linguaglossa, piccole, deformi, brutte. Ma inimitabili. E il rinomato pistacchio a nord-ovest, verso Bronte, anche lui piccolo e imperfetto.
Ma la regina indiscussa è la vite, la pianta il cui frutto portò alla perdizione il grande patriarca, Mosé, e nel contempo onorò quell'ambiguo dio i cui culti dettavano le stagioni, i ritmi della vita, i momenti di pace e di guerra, Dioniso. Il vino etneo ha una gradazione alcoolica talmente elevata, che veniva prodotto fino alla metà del XX secolo quasi esclusivamente per "smezzare" i delicati e leggeri vini piemontesi e francesi: si raggiunge anche il 15% di volume in alcool. Questo per via della carenza di acque superficiali, per le escursioni termiche tra le caldi estati siciliane e i rigidi inverni dell'alta quota, nonché per i terrazzamenti in cui alloggiano le piante, resi il più stretti possibile. La vite accumula poca acqua e nell'uva si concentrano gli zuccheri i quali stabiliscono il tasso alcoolico durante la fermentazione.

Il Vulcano.
Perché un immenso vulcano è l'Etna. Anzi. Uno stratovulcano, una vera e propria matriosca composta da una serie di vulcani e vulcanismi che si sono sovrapposti nei millenni che si sono susseguiti. Da quei fenomeni che coinvolsero il suolo oceanico dell'estinto Tetide, diventato il Mediterraneo, intorno ai 700 mila anni fa e sviluppatisi seguendo un arco che va da sud verso est seguendo quasi la costa, attraverso attività fessurali si creò la prima struttura portante di ciò che esiste oggi, un insieme di stratificazioni di tipo toloeiitico che prende il nome di livelli basali e tra i 500 e i 300 mila anni fa si formarono i banconi verso sud-ovest; quindi vi fu uno spostamento dei centri eruttivi e la formazione del sistema delle Timpe, vere e proprie falesie laviche; fino ad attività esclusivamente subaeree tra i 110 e i 60 mila anni fa, con il sorgere della Valle del Bove, erroneamente definita caldera. Il Monte Calanna fu il primo imponente vulcano, sostituito dall'esplosivo Trifoglietto (I e II), caratterizzato dalle temibili eruzioni pliniane, quindi sorse l'imponente mole di un vulcano mai più eguagliato durante la genesi dell'Etna: l'Ellittico.
Vissuto quasi 40 mila anni, tra i 55 e i 15 mila anni fa, la sua mole dovette essere la più antica figura che i primi abitanti siciliani conobbero. Il gigante per assoluto, l'Ellittico con i suoi quattro chilometri di altezza. A seguito dello svuotamento della camera magmatica, la struttura cedette al di sotto del suo stesso peso. Fu un evento che certamente rimase impresso nelle memorie del primo Uomo di Sicilia e, secondo alcuni filologi, fu l'evento che diede origine a molti miti del Mediterraneo, tra cui, la Titanomachia.

L'immensa caldera ellittica - avente due chilometri di asse maggiore - venne comunque interessata da nuove eruzioni che crearono il Mongibello Antico. Questo collassò ancora una volta durante lo svilupparsi delle prime società evolute di Sicilia, durante quella attività che forse fu l'immensa eruzione ricordata da Tucidide ed erroneamente riportata alla fine dell'Età del Bronzo, causa della fuga dei Sicani dalla Sicilia orientale. Sulle spoglie dell'Antico sorge adesso il Mongibello Recente, il quale in realtà costituisce il condotto principale di un sistema vulcanico complesso.
L'Etna è costituito infatti da un bacino magmatico che intercetta gli strati argillosi pleistocenici e da una serie di condutture magmatiche la cui esistenza è condizionata dal capriccio dei gas che dal Mantello salgono verso la Crosta. Come la reazione tra le bevande gassate e la soda. Il condotto principale alimenta costantemente le Bocce Centrali (il Sud-Est, la Voragine, il Nord-Est, Bocca Nuova e il più recente Nuovo Sud-Est), ma il peso della stessa struttura lavica tende ad un continuo e lento collasso in espansione, causa di fessure lungo le quali talora si aprono condotti secondari da cui viene emessa lava, per via esplosiva ed effusiva. Sono le ferite sulla pelle del vulcano, da cui fuoriescono zampilli e lingue di quel sangue di roccia che tutto distrugge. Sono crateri dalla effimera vita, imprevedibili, ma situati lungo direttrici ben precise.
Lungo la fessurazione si accumula il materiale emesso dalle "fontane" di lava e sorgono i "Monti" talora disposti in fila come bottoni (da cui il termine di bottoniera), alla sua base rimane il brullo deserto - e dalla mediazione della lingua araba di صحراء, sahra', il siciliano sciara - che ricopre il vecchio suolo distruggendo tutto ciò che esso produceva. Solo il tempo e le generazioni di piante susseguite riescono a rendere il nuovo suolo ancora una volta produttivo, ma l'Uomo davanti al capriccio vulcanico può solo piangere il perduto. Ed è allora che si rassegna.
'A Muntagna runa, 'a Muntagna leva.

martedì 19 gennaio 2016

Campanarazzu. Alle origini di Misterbianco

Dopo un lungo periodo di quiescenza, torniamo a scrivere tra le pagine del nostro blog, e ci occupiamo ancora una volta - dall'ormai lontano mese di giugno - dei beni archeologici e monumentali che arricchiscono la cittadina di Misterbianco. E lo facciamo iniziando dalla fine.

Ipotesi ricostruttiva dell'eruzione del 1669 secondo il pittore Domenico Agosta (fonte).
O per meglio dire dalla distruzione che subì quel primo nucleo abitativo, detto Monasterium Album nei diplomi quattrocenteschi, venendo sommerso dall'ignis flumen del 1669.
Il piccolo abitato, ben documentato nei carteggi cinque e secenteschi, sorgeva a ridosso di un noto monastero fondato probabilmente nel XIV secolo la cui chiesa era dedicata a Santa Maria delle Grazie e le cui pareti erano intonacate di un vivissimo chiarore, tale da ricordare l'edificio appunto quale "Monastero Bianco", donde poi il nome del villaggio.
Stampa dell'incendiato Comune
Antica rappresentazione del borgo di Misterbianco (fonte).
Questo, sorto inizialmente per le attività di supporto dei frati, si ingrandì e ottenne sempre più un carattere urbano al punto da contare più di 900 abitazioni per 3.656 abitanti nel 1652.
Appena dodici anni prima il casale, appartenente al demanio, venne infeudato per rimpinguare le casse regie sotto Filippo IV, a beneficio del genovese Giovanni Andrea Massa che due anni più tardi cedette al casato dei Trigona di Piazza il borgo, nella figura di Vespasiano, chiamato anche Francesco Mario.
Dobbiamo probabilmente a questo "passaggio di consegne" l'aspetto manierista della chiesa madre, già cappella del monastero, nel cui presbiterio si fece seppellire il Trigona, già barone di S. Cono e Dragofosso, come recita la lettera testamentaria:

Anno Domini 1668 die 7 Dicembris
Don Franciscus Marius Trigona, civitatis Plachae, abitator clarissimae urbis Catanae Dominus huius terrae Misteri Albi aetatis suae annorum triginta quinque, in dicta urbe Catanae, in domo sua animam reddidit Deo, cuius corpus fuit a dicta urbe translatum in hac praedicta terra Misteri Albi et sepultum fuit in hac Matrice Ecclesia

Ma le spoglie di Francesco Mario, il cui nipote omonimo sarà il primo a fregiarsi del prestigioso titolo di Duca di Misterbianco, non riposarono in pace a lungo: appena tre mesi dopo diversi moti tellurici annunciavano l'apertura di una fessura sul fianco dell'Etna, dalla quale si riversarono 16 km di lava, da Nicolosi fino al mare, distruggendo e seppellendo ciò che essa incontrava lungo il cammino e condizionando inesorabilmente la vita degli etnei. Il 10 marzo iniziò la formazione del cratere che prese il nome di Monti di la ruina, oggi noto come Monti Rossi, e l'indomani la lava raggiunse e distrusse Misterbianco, schivando appena qualche abitazione rurale e la chiesa degli Ammalati.

Epigrafe posta al di sotto dell'olivo ultra centenario.
La lentezza del fronte lavico, che da marzo solo a luglio raggiunse il porto di Catania, permise comunque ai misterbianchesi di salvare tutto ciò che fosse stato facilmente asportabile, ma il panico fu tale che la gente si disperse tra le campagne senza una meta precisa, così il canonico della chiesa madre fece appendere la campana bronzea della chiesa madre, opportunamente salvata, sul ramo di un vecchio olivo per chiamare a raccolta i cittadini. L'olivo, miracolosamente sopravvissuto alla lottizzazione selvaggia, è noto popolarmente col nome di Aliva 'mpittata e si trova non lungi dal sito della vecchia città scomparsa.

Interni del campanile.
La città venne ricostruita sin dal mese successivo, a partire dalla chiesa madre, eretta ad imitazione del tempio più antico. Questa è ancora oggi esistente, sebbene abbia persa il suo primato civico ed è intitolata a San Nicola.
La lava poi, raffreddandosi, offrì uno spettacolo inquietante e spaventoso, ma tra le sciare si vide un fenomeno piuttosto singolare che caratterizzò a lungo il sito. In mezzo alla roccia si ergeva ancora integro l'antico campanile della chiesa madre, come un faro che coraggiosamente si oppone ad una dragunara di petra.
Il fascino crollò con il sisma del 1693 e le macerie ostruirono quell'unico passaggio verso un mondo adesso sotterraneo.

Il campanile così diruto prese facilmente il nome ad oggi rimasto: Campanarazzu.

Confronto tra la planimetria ipotetica
e la planimetria reale
Nel corso dei secoli non mancarono ardimentosi ragazzi che si cimentavano nell'impresa di incunearsi tra le rocce dell'infausta colata. Questi raccontavano di meraviglie cui nessuno voleva credere. Vi fu poi negli anni '80 chi arrivò ad intuirne l'integrità del pavimento e alcune foto ritraenti i resti di colonne finemente decorate concretizzarono l'idea che l'edificio fosse ancora esistente e si potesse liberare dalla lava. Si abbozzò anche una planimetria, basata prevalentemente sul confronto con la chiesa di San Nicola e sulle varie esplorazioni speleologiche di quegli anni. Tale planimetria però si rivelò in parte errata.

L'antica chiesa di Santa Maria delle Grazie
(gennaio 2016).
Sulla base degli indizi fin lì raccolti, una associazione locale, Monasterium Album, sorta appositamente allo scopo di recuperare la memoria civica recuperandone i monumenti e fondando un museo, riuscì a convincere gli enti interessati - ai tempi la Provincia di Catania - ad inaugurare quella che divenne una lunga campagna di lavori che ha messo in luce l'intero impianto ecclesiastico, con l'obiettivo di renderlo fruibile e creare così una nuova e imperdibile risorsa del territorio, con l'idea che gli stessi misterbianchesi possano esserne attenti custodi ed estimatori.
Contestualmente ai lavori di sgombero si provvide alla creazione di un giardino civico con ampio parcheggio annesso, nella previsione di creare un grande parco comprendente le sciare, i ruderi e un grande querceto secolare scampato alla furia della lava.

Il sagrato cinquecentesco della chiesa,
combusto dalla lava del 1669.
Il cantiere ha messo in luce l'intero perimetro, nonostante buona parte delle pareti vennero distrutte fino a quasi un metro da terra, salvo alcune importanti eccezioni, come le due profonde cappelle che conferiscono una insolita planimetria all'edificio o il presbiterio, conservati praticamente fino all'imposta del tetto.

Davanti alla facciata si rinvenne persino l'originale lastricato a gradoni in pietra da taglio e ciottoli, costituente il sagrato della chiesa, mentre del portale sono emersi i basamenti degli stipiti, finemente scolpiti.

Gli stessi a loro volta hanno restituito numerose testimonianze di fede, sintetizzate dall'incisione di nomi, lettere, simboli, tra cui la più ricorrente è la croce.
Basamento dello stipite di destra.

Una delle maggiori sorprese fu il ritrovamento di un magnifico portale bicromo, databile al primissimo rinascimento catanese (metà del XV secolo).
Si tratta di una porta costituita da due alti stipiti lisci in pietra lavica che reggono un arco in pietra calcarea di possibile estrazione iblea.

Due pseudo-capitelli serrano l'apertura ai suoi lati, decorati a toro e scozia. Su questi si appoggiano altrettanti mensoloni triangolari che reggono un cornicione il quale chiude l'arco. Il cornicione riprende il motivo dei capitelli, cui aggiunge una processione di dentelli che seguono la curva dell'arco.
L'intradosso presenta una incavatura che ne mette in risalto il bordo bombato.

Questa tipologia di portale, sebbene indicato da alcuni quale di gusto tardo-gotico, andrebbe piuttosto inquadrata già nel rinascimento, specie se confrontata con gli analoghi esempi nella Cappella Bonajuto a Catania, dove è possibile apprezzare un processo formale che conduce al tipo del primo Cinquecento. Un portale pressoché identico, va ricordato, venne recuperato per organizzare l'ingresso all'incavo che conserva i resti della omonima chiesa di Mompileri.

Altare di Sant'Erasmo, inizi XVII secolo.
All'interno dell'edificio si rinvennero alcuni altari pressoché integri, sebbene con vistose tracce di combustione, mentre di altri si trovarono solo macerie.
Con molta pazienza i frammenti architettonici sparsi sono stati recuperati e, capitane la disposizione, se ne sta iniziando il montaggio e l'integrazione dei frammenti perduti.

Originariamente dipinti - rimane anche un affresco secentesco rappresentante forse Sant'Antonio Abate - gli altari erano tutti inquadrati in macchine rinascimentali rievocanti gli archi di trionfo romani.
Vale la pena ricordare l'altare di Sant'Erasmo, su cui vi era un incavo in cui si incastrava la statua nimbata del santo, evidentemente asportata durante il corso dell'eruzione, il quale era riccamente decorato con un trompe-l'oil rappresentante un balcone e la volta celeste resa da un amalgama di puttini.

Poco prima del presbiterio si trovavano le due grandi cappelle del Crocifisso e di Santa Maria delle Grazie.

La Cappella del Crocifisso, grazie allo studio di alcuni carteggi, è datata al 1628, poco prima pertanto la vendita del casale al mercante Massa.

La cappella era anticipata da un ricchissimo e prezioso pavimento in ceramica smaltata che trova utili confronti con i materiali rinvenuti nella cosiddetta Casa del Terremoto a Catania e databile alla metà del XVII secolo. Questo pavimento taglia il regolare tessuto delle mattonelle esagonali, tipiche nel catanese rinascimentale, creando di fatto un ampio sagrato che anticipa la cappella, il quale aspetto doveva somigliare ad un prezioso tappeto. Si potrebbe supporre l'esistenza di un cordolo o di una balaustra lignea che ne seguisse l'andamento. Tali attenzioni permettono oggi di capire quanto il culto al Crocifisso fosse particolarmente sentito in quella Misterbianco secentesca.

Cappella del Crocifisso (1628).
L'ingresso alla cappella era costituita da un ricco vestibolo rinascimentale, ancora una volta replicante il motivo dell'arco trionfale, stavolta più ampio e maestoso rispetto alle strutture degli altari laterali.
Ai lati dell'arco erano due semicolonne binate, su basi finemente decorate da motivi fitomorfi, fito-antropomorfi e rappresentanti bizzarre creature, dal corpo scanalato e di ordine corinzio.
Tra le due colonne era ricavata una finta nicchia con un altorilievo figurato. Le due statue in pietra, malta e stucco rappresentavano i santi Pietro e Paolo.
Dalla cappella si giungeva ad un vano, forse un piccolo oratorio, vista la presenza di una piccola nicchia sulla parete nord.

Cappella di Santa Maria delle Grazie (1628 ca.).
Fronteggiante ad essa era la Cappella di Santa Maria delle Grazie. Questa, per analogia stilistica, non può che essere databile allo stesso periodo della precedente.

Anche questa cappella era inquadrata all'interno di un ricco vestibolo finemente decorato nei cui lati erano ricavate due nicchie strette tra le colonne binate con rispettivi santi raffigurati al loro interno.
A differenza della cappella del Crocifisso, questa era costituita da una nicchia piuttosto che da un profondo vano, al cui interno era alloggiata la magnifica opera plastica gaginesca rappresentante la Madonna delle Grazie, asportata in tempo dai misterbianchesi e preservata dalla lava.
Ai lati dell'altare vi era un percorso costituito da gradoni, utile per il raggiungimento devozionale della statua.

La Cappella Gotica.
Gli ultimi finanziamenti importanti hanno concesso l'esplorazione e la liberazione di un vano fin lì insperato, ubicato alle spalle del nicchione entro cui era il simulacro della Madonna.

Questo vano dovette essere l'originaria cappella delle Grazie, chiusa in un secondo momento per ragioni logistiche o strutturali, da cui venne asportato il simulacro rinascimentale intorno al primo Seicento.
L'ambiente ha restituito gli originali fasci di colonnine con relative basi e capitelli, nonché un accenno di costolonatura, di squisita fattura Gotica, appartenente ad un gusto piuttosto raro in Sicilia, citando pienamente l'eleganza francese.

D'altro canto il Gotico è citato apertamente dalla presenza di un achtort, una stella ad otto punte che costituiva un insolito ingresso ad una delle sepolture decorato da semplici scanalature, un simbolo molto forte e rinforzato dal trovarsi di fronte all'altare del Santissimo Purgatorio.

La stella a otto punte, infatti, costituisce come l'analoga forma dell'ottagono la figura intermedia per eccellenza tra il quadrato - che nella simbologia medioevale rappresenta il mondo materiale - e il cerchio - simbolo invece del mondo ultraterreno - acquisendo pertanto il significato del passaggio tra la vita terrena e quella ultraterrena.

Questa magnifica bocca per le sepolture non è a sola a presentare un bordo decorato, alcune riprendono lo stesso semplice motivo, altre invece mostrano elementi di raffinata eleganza attraverso motivi incisi su lastre di marmo.

Muro del pulpito.
Vale la pena infine evidenziare altri elementi messi in luce dai lavori di sgombero dalla lava del 1669, come per esempio un alto zoccolo che circonda il presbiterio, forse base per un coro ligneo.

Questo seguiva l'andamento della parete che è stata rinvenuta piatta e non , come si ipotizzava curva in un cappellone, circondando poi con una gradinata l'altare centrale.

La parete sud del presbiterio ha restituito anche la scalinata in muratura che raggiungeva il pulpito, addossata alla parete ovest della cappella del crocifisso, oltre alla porta che doveva condurre fuori o in altri ambienti perduti, murata come meglio si poté con rocce poste alla rinfusa, nella speranza che la lava non arrivasse ad entrare.


Frammenti lapidei da Campanarazzu, all'interno del Museo di Arte Sacra di Misterbianco.
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